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RIPRENDIAMO LA MOBILITAZIONE! ORA, O SARA’ TROPPO TARDI

In Senza categoria on settembre 29, 2010 at 6:21 PM

Il coordinamento campano ha presenziato all’assemblea dei sindaci di Ato2, ed esprime tutto il proprio sconcerto di fronte all’incapacità di amministratori che non riescono a riunirsi per mancanza del numero legale (29 enti presenti su 136 il 28/09/2010), e che in 4 anni invece di dar corso alla ripubblicizzazione dell’acqua, non hanno fatto altre  delibere che quelle necessarie al proprio auto perpetuarsi.

Il sindaco di Napoli, dichiaratosi favorevole all’acqua pubblica, non è riuscita ad inviare i suoi delegati all’assemblea di ato2 (presenti 8 su 15), nè è riuscita a riunire il consiglio comunale monotematico necessario alla modifica dello statuto comunale come da delibera di indirizzo del 30 luglio 2009.

Ribadiamo quindi:

– che la non ripubblicizzazione dell’acqua è dovuta all’incapacità e all’immobilismo degli amministratori locali.

– che 1.400.000 cittadini/e italiani hanno già espresso con la richiesta del referendum la loro volontà di acqua pubblica

Nei tre mesi che mancano al 31/12/2010 per arrivare all’acqua pubblica è necessario:

– che si dia prosecuzione alla legge regionale che dichiara l’acqua bene privo di rilevanza economica.

– che venga convocato il consiglio comunale del comune di Napoli nel quale si deliberi la trasformazione dell’arin s.p.a. in azienda speciale, unica garanzia contro la privatizzazione

Napoli, 28/09/10

Coordinamento Campano per la Gestione Pubblica dell’Acqua

Petizione per cancellare la condanna a morte di sei bambini del Darfur

In Senza categoria on settembre 28, 2010 at 10:07 PM

Un appello per chiedere la sospensione definitiva delle condanna a morte di sei bambini di etnia Fur accusati di far parte del Justice and Equality Movement, uno dei movimenti ribelli piu’ importanti del Darfur. Come appreso dal Sudan Tribune lo scorso novembre, la sentenza non e’ ancora esecutiva, per questo chiediamo che essa venga ufficialmente cancellata.

Anche Articolo 21 e altre associazioni hanno raccolto e rilanciato l’iniziativa promossa da ‘Italians for Darfur’ che continua a denunciare la violazione dei diritti umani in Sudan. I sei minori, di eta’ compresa tra gli 11 e i 16 anni, sono accusati con altri 150 guerriglieri di aver partecipato all’attacco del 2008 nella capitale sudanese che causo’ oltre 300 vittime.
Il tribunale di Khartoum ha emesso finora oltre 100 condanne a morte, molte delle quali gia’ eseguite. Con questo appello chiediamo al Governo sudanese di sospendere la sentenza ma anche di approfondire le responsabilita’ del coinvolgimento di questi bambini in azioni di guerra. Va accertato se il Jem, come purtroppo al momento possiamo solo supporre, abbia impiegato bambini soldato nell’attacco a Khartoum e se continui ad arruolare minorenni sottraendoli con la forza alle loro famiglie, negando cosi’ loro di vivere l’infanzia e l’adolescenza che sono a loro dovute.

Per firmare la petizione

RIAPRE IL PROCESSO MARLANE

In Senza categoria on settembre 28, 2010 at 9:37 PM

Domani 30 Settembre riapre il processo per la Marlane di Praia a mare. In questa udienza preliminare, dopo il preambolo del 13 Luglio, saranno presentate le richieste di costituzione in giudizio delle parti civili.

La nostra Associazione si costituirà in rappresentanza del territorio offeso e della salute della  popolazione residente, insieme con i parenti e con le sigle sindacali che rappresentano i molti, troppi, operai morti di lavoro.

Ci auguriamo che il nostro appello alle Istituzioni, non presenti nell’udienza di Luglio, abbia avuto un seguito.

Ci auguriamo che la presenza dei Comuni interessati, della Provincia, della Regione e dello Stato, visto il numero di morti e la ferita inferta al rispetto delle regole di sicurezza sul lavoro, sia almeno pari a quella mostrata in altri luoghi di lavoro in cui il numero delle vittime innocenti è stato molto minore.

Ci auguriamo che la presenza delle Istituzioni domani dimostri che la tutela del Territorio e della Salute dei cittadini non è solo appannaggio di noi cittadini ma anche di chi ci rappresenta.

Per i cittadini tutti, per i parenti delle vittime, per gli operai oggi ammalati di lavoro, per le Associazioni, per la Giustizia sarebbe una buona notizia

CRBM: 100 miliardi di dollari l’anno per l’ambiente non bastano

In Senza categoria on settembre 28, 2010 at 8:36 am

Foto: Ecoo

A metà settembre le Nazioni Unite hanno celebrato la Giornata Mondiale della Democrazia, giornata che sembra aver avuto poco a che fare con il recente meeting informale di Ginevra su finanza e ambiente, al quale hanno partecipato 46 Paesi dall’elevato peso politico nell’ambito dei negoziati sull’ambiente.

L’incontro è stato convocato su iniziativa del governo Svizzero e di quello Messicano e si è svolto, denuncia La Campagna per la Riforma della Banca mondiale (CRBM), “secondo una logica dove i più forti decidono” complicando una convergenza con i paesi in via di sviluppo in vista dell’appuntamento di dicembre a Cancun dove, dopo i non proprio esaltanti risultati della conferenza di Copenhaghen, i grandi della Terra cercheranno di trovare un accordo sul clima nella la sedicesima conferenza ONU sul tema.

La CRBM, Friends of the Earth, Institute for Policy Studies e numerose altre organizzazioni di tutto il mondo avevano chiesto ai rappresentanti governativi con un documento di cambiare radicalmente approccio sull’importante questione della finanza per il clima, ponendo come priorità l’aiuto ai Paesi poveri per far fronte agli impatti del surriscaldamento globale e la transizione verso economie basate su fonti energetiche pulite.

La proposta è stata fatta, ma il risultato dell’incontro lascia ancora dubbi, nonostante per il ministro degli esteri messicano Patricia Espinosa, che presiederà la prossima conferenza di Cancun, l’incontro informale di Ginevra abbia posto “una pietra miliare per la preparazione del vertice messicano”. I dispacci di agenzia parlano di “visioni più chiare sulla finanza per il clima” e riportano “la possibilità di un accordo da parte dei 194 Paesi che rientrano nella Convenzione sul Clima” sulla creazione di un “Green Fund” già durante la conferenza di Cancun di fine anno.

Entro il 2020, ha concluso l’elite dei 46, il fondo dovrebbe ricevere versamenti pari a 100 miliardi di dollari l’anno, ma in realtà gli Stati Uniti hanno già fatto sapere che non si discosteranno dalla posizione negoziale assunta lo scorso dicembre al disastroso vertice di Copenhagen, quando gli assegni per le misure di adattamento e mitigazione agli effetti dei cambiamenti climatici erano stati vincolati alla riduzione delle emissioni di gas serra da parte anche delle economie emergenti e soprattutto al sistema di monitoraggio di tali provvedimenti.

Per CRBM la quota dei 100 miliari di dollari è ritenuta in ogni caso insufficiente per attivare le misure necessarie a stabilizzare le emissioni di gas di serra ed è ben lontana dai 30 miliardi per il triennio 2010-12 proposti a Copenhagen. Servono molti più soldi, forse addirittura il quadruplo. “Si parla di una cifra intorno ai 100 miliardi di dollari l’anno, senza però che ci siano né delle basi scientifiche né negoziali al proposito”, ha dichiarato Elena Gerebizza della CRBM. “Purtroppo quella cifra non è sufficiente per stabilizzare le emissioni di gas serra e quindi garantire la sopravvivenza dei Paesi più poveri e più impattati dagli effetti del surriscaldamento globale”.

In base ai risultati dell’incontro inoltre non è ancora chiaro se è intenzione dei governi mettere a disposizione finanziamenti pubblici o incentivare il ruolo del mercato. Per questo nell’agenda del meeting ginevrino oltre alla creazione di un fondo climatico globale, si è anche affrontato il ruolo del settore privato in questo ambito, altro tema caldo per le ong.

“Invece di riservare tanta enfasi al settore privato e a strumenti inadeguati come il mercato di crediti di carbonio, i governi del Nord del mondo dovrebbero iniziare a far fronte ai loro obblighi e realizzare un fondo globale più solido che operi nell’ambito delle Nazioni Unite e non di altre istituzioni, come la Banca mondiale, la quale ha un record ambientale a dir poco inadeguato”, ha concluso la Gerebizza.

Di recente Cina e G77 (il gruppo dei paesi del Sud) hanno chiesto che il Nord impegni l’1,5 % del suo prodotto lordo complessivo per evitare catastrofi peggiori di quelle che già adesso sconquassano intere regioni come quella accaduta in agosto in Pakistan. Il dato di fatto è che mentre nel 2007, al vertice sul clima di Bali, i paesi ricchi si impegnarono a garantire il contributo finanziario e il trasferimento di tecnologie necessari adesso, adducendo anche la scusa della crisi, si tirano indietro e nella migliore delle ipotesi provano a riciclare promesse fatte in passato.

Alla luce dei risultati ginevrini le organizzazioni della società civile internazionale chiedono congiuntamente che l’agenda della finanza per il clima in vista sia completamente rivista e si ispiri, proprio alla Road Map di Bali.

Nel documento pubblicato sul loro nuovo sito, www.globalclimatefund.org, il suggerimento è anche organizzativo: “speriamo che il Fondo globale per il clima sia dotato di un consiglio direttivo con equa rappresentanza di tutte le regioni del mondo e in particolar modo dei paesi più vulnerabili al surriscaldamento globale, un segretariato indipendente e una serie di comitati tecnici in grado realizzare le procedure di mitigazione, adattamento e trasferimento delle tecnologie”. [A.G.]

Sono porci questi romani”, il Pd: mozione di sfiducia contro Bossi. Il Senatur: “Solo una battuta, vi sentite in colpa?”

In Senza categoria on settembre 28, 2010 at 8:32 am
Umberto Bossi 

Il Pd annuncia una mozione di sfiducia nei confronti del ministro Umberto Bossi. Il leader della Lega aveva suscitato polemiche parlando ieri nel corso di un’iniziativa a Lazzate a proposito dell’ipotesi di spostare il Gran Premio di Formula Uno da Monza nella capitale: “I romani se lo possono dimenticare, Monza non si tocca e a Roma possono correre con le bighe”. Non solo:”Basta con Senatus Populusque Romanus, “il Senato e il popolo romano”, io dico ‘sono porci questi romani’”. Le reazioni non si sono fatte attendre, da sinistra ma anche da destra.

Nella serata di lunedì arriva la risposta di Bossi all’annunciata mozione di sfiducia: ”La mia era una battuta, una battuta alla Asterix, ma dalle reazioni che vedo in queste ore mi viene da pensare che a Roma si sentano in colpa”.”Del resto al nord hanno portato via prima l’aeroporto di Malpensa e adesso vogliono prenderci anche il Gran Premio di Monza. Il Giro d’Italia non arriva più a Milano, a Venezia hanno impedito di avere le Olimpiadi”. ”Mettiamo insieme tutte queste cose – ha aggiunto il ministro delle Riforme – e si capisce che il nord non può amare Roma”. ”E in ogni caso – ha concluso Bossi – tutti sanno che io non ce l’ho mai avuta con il popolo romano, ma ce l’ho con Roma apparato che ruba la libertà e la ricchezza a chi la produce”.

In giornata molti hanno preso le distanze dalle parole di Bossi. La sortita infatti non è piaciuta né al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, né al presidente della Regione Lazio Renata Polverini.

Secondo Alemanno “questa volta Bossi ha veramente superato il segno. Non solo ha insultato la Roma di oggi, ma anche quella del passato rispolverando una vecchia battuta da fumetto”. “Oggi stesso – ha annunciato il sindaco in una nota – scriverò al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per chiedere che intervenga presso i Ministri del suo Governo affinché tengano un atteggiamento istituzionale e politico più consono alla loro carica e più rispettoso del ruolo di Roma Capitale e della dignità dei romani”.

Per Renata Polverini quella di Umberto Bossi sui “romani porci” è ”una battuta volgare che male si addice a un Ministro della Repubblica”. ”I cittadini di Roma e del Lazio meritano rispetto” aggiunge la Polverini che conclude: ”Mi auguro che da parte del Governo ci sia una presa di distanza da parole offensive che vanno oltre il solito folklore”.

Bossi, oltre al rancore nei confronti di Roma, mostra un’informazione parziale sulla questione del Gran Premio. Nelle intenzioni degli organizzatori della gara nella Capitale, infatti, non c’è quella di sostituirsi a Monza. Un problema, però, esiste ed è quello dei soldi. Organizzare una gara di F1 costa e servono tanti sponsor. Il rischio concreto è quello che non si raccolgano investimenti sufficienti per permettere la disputa di entrambe le gare. In passato, in Italia si correva sia ad Imola che a Monza ma la disponibilità degli sponsor ad investire, come ha spiegato alcuni giorni fa alla Stampa il direttore dell’Autodromo di Monza Enrico Ferrari era decisamente superiore a quella di oggi

Dipendenti, persi 5000 euro in 10 anni. Epifani: intervento urgente sui salari

In Senza categoria on settembre 27, 2010 at 1:09 PM

I lavoratori dipendenti italiani hanno perso in dieci anni oltre 5mila euro di potere d’acquisto. Lo fa sapere la Cgil nel suo rapporto sulla crisi dei salari presentato oggi nel quale spiega che nel decennio le retribuzioni hanno avuto, a causa dell’inflazione effettiva più alta di quella prevista, una perdita cumulata del potere di acquisto di 3.384 euro ai quali si aggiungono oltre 2 mila euro di mancata restituzione del fiscal drag che porta la perdita nel complesso a 5.453 euro.

Così, dal 2000 al 2010 – secondo un rapporto Ires-Cgil – c’è stata una perdita cumulata di potere d’acquisto dei salari lordi di fatto di 3.384 euro (solo nel 2002 e nel 2003 si sono persi oltre 6.000 euro) che, sommata alla mancata restituzione del fiscal drag, si traduce in 5.453 euro in meno per ogni lavoratore dipendente alla fine del decennio.

In Italia esiste «un grande problema che riguarda l’abbassamento dei salari anche legato al prelievo fiscale», sottolinea il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che chiede «un intervento urgente che sgravi il lavoro dipendente» riequilibrando il peso del prelievo a favore dei salari. I salari, secondo Epifani, pagano al momento di più di altri redditi ed è necessaria una «svolta» che affronti il problema delle retribuzioni.

Italia: il Damac per salvaguardare l’Adriatico

In Senza categoria on settembre 27, 2010 at 10:11 am

Foto: Forumlive

Mentre alcuni sindaci protestano per il completamento della Fano Grosseto dormendo in tenda il presente articolo che riceviamo dalle Marche vuol ricordare Leonardo Polonara, dirigente della regione morto ad inizio estate. Egli era da anni immerso nell’elaborazione di uno studio che passava attraverso la tutela del mare nostrum – l’Adriatico – e la rivoluzione di un approccio alla gestione delle grandi infrastrutture. Il D.a.m.a.c.* (Difesa ambientale del mare Adriatico) è stato portato avanti dal novembre del 2004, sotto la guida di Polonara, per le Marche, e dall’assessore alla pianificazione territoriale della contea di Zara, Nives Kozulic. Con la volontà di perseguire l’obiettivo strategico dello sviluppo sostenibile del sistema terracqueo dell’Adriatico centrale, attraverso la gestione integrata del patrimonio biologico, naturalistico, paesaggistico, sociale ed economico, in partnership con i Paesi transfrontalieri.

Fra i tanti punti attorno ai quali si articola il Damac, quello di maggiore interesse – e sicuramente il più temerario – riguarda quattro interventi chiave nell’area italo-balcanica: 1) riduzione del traffico di navi petroliere (e dunque pericolose); 2) istituzione di corridoi longitudinali delle rotte di separazione; 3) ridistribuzione del traffico su gomma sulle due sponde dell’adriatico; 4) potenziamento della mobilità ferroviaria.

1. Una grande quantità del petrolio che per via navale, transita fra Italia ed ex Jugoslavia per giungere al centro di snodo di Trieste, non viene poi distribuito all’interno di questi due mercati ma prosegue verso nord. Il progetto dunque, consiglia di potenziare ed eventualmente costruire nuovi oleodotti che colleghino direttamente alla rete europea – dove veramente viene smistata la materia prima – le centrali di estrazione del Mar Nero e del Mar Caspio (via Romania, Serbia, Slovenia e Trieste), abbattendo la quantità di petrolio in viaggio sulle nostre acque. E contrastando, di conseguenza, il fenomeno degli scoli illegali di liquidi di sentina in mare aperto e i rischi di collisione fra mezzi e disastro ambientale.

2. Per quanto riguarda invece quelle petroliere che continuerebbero a solcare i nostri mari, il Damac intende istituire corridoi longitudinali quali rotte di separazione. Degli schemi di divisione del traffico che servirebbero per la manovra di avvicinamento e uscita dai porti o da acque ristrette, aumentando la sicurezza e impedendo ogni possibilità di collusione navale.

3. La terza questione è una delle più salienti e punta diritta ad uno degli storici problemi italiani: lo smisurato trasporto su gomma. La costruzione dell’autostrada croata negli anni scorsi, ha già avuto i suoi effetti benefici sull’A14 ed altre arterie. Ma non essendo collegati fra loro il Montenegro, l’Albania e tutta l’area del massiccio delle Alpi albanesi, il sud slavo resta escluso dall’allaccio alla rete continentale. Di qui la necessità di realizzare l’autostrada Igoumenitsa-Valona-Tirana-Bar-Dubrovnik, al fine di permettere lo sviluppo economico dei paesi sopracitati e di collegare pienamente ai corridoi europei la sponda balcanica.

4. Infine, su entrambi i versanti va potenziata la mobilità ferroviaria. Uno scambio veloce delle merci fra i Quadranti Orientali e Occidentali del Mediterraneo, sarebbe implementato investendo nel tratto Durres-Veria o Ploce-Sarajevo, ma soprattutto nello strategico raddoppio della tratta Ancona-Orte-Civitavecchia, attualmente una delle più pericolose di tutta la rete nazionale per via del binario unico. Quest’ultimo intervento permetterebbe di decongestionare parte del traffico di merci e persone dirette verso occidente (Spagna e Portogallo) o viceversa, sottraendolo dall’alto e medio Adriatico.

Parlare del Damac non è solamente l’occasione di puntare i riflettori sull’impegno di alcuni in favore di una salvaguardia totale – habitat e popolazioni – della regione adriatica. Serve anche a denunciare l’ipocrisia che spesso la politica nasconde dietro tali iniziative. Infatti è facilmente ipotizzabile – come sapevano e sanno i coordinatori del progetto – che tutto ciò rimarrà sulla carta. Non solo perché ci troviamo di fronte ad un piano estremamente idealistico e quindi difficile da realizzare.

Di sicuro, la giunta regionale delle Marche, nel 2004, al momento di finanziare e sostenere l’iniziativa, era perfettamente consapevole degli interessi geopolitici più grandi di essa, che gravitano intorno al mondo del petrolio e dei trasporti. Ed era consapevole, visto il ceto socio-economico di cui fa le veci, di non poter alzare un dito di fronte agli scogli futuri.

Ne era consapevole anche Leonardo Polonara, il quale, nonostante tutto, ha svolto il proprio dovere fino alla fine dei suoi giorni, incurante – ma cosciente – del muro di gomma sul quale il Damac si sarebbe schiantato.

Roma: Alemanno intende chiudere la Città dell’Altra Economia

In Senza categoria on settembre 26, 2010 at 10:50 am

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Città dell’Altra Economia – Foto: Lc-architettura

La Città dell’Altra Economia (Cae) di Roma è uno dei primi spazi in Europa interamente dedicato a quelle pratiche economiche che si caratterizzano per l’utilizzo di processi a basso impatto ambientale. L’ex mattatoio, supportato da sponsor etici, garantisce un’equa distribuzione del valore e non persegue il profitto e la crescita a ogni costo mettendo al centro le persone e l’ambiente. Ora, dopo tre anni d’intensa attività, la Cae è ad elevatissimo rischio di chiusura da parte dell’amministrazione comunale.

Questo spazio non è solo un semplice “centro commerciale sostenibile” di 3.500 mq recuperati dell’area dell’ex Mattatoio all’interno del Foro Boario di Testaccio ma è, secondo un preciso progetto condiviso con il comune e avviato dalle oltre 60 realtà che hanno animato il Tavolo dell’Altra Economia cittadino, un luogo pubblico ed educativo importante per Roma.

Chi ha varcato le sue porte ha avuto la possibilità di partecipare alle oltre 30 linee di attività – tra cui l’agricoltura biologica, il commercio equo e solidale, il riuso e riciclo, le energie alternative, il consumo critico, la finanza etica, il teatro, l’arte, la formazione, la comunicazione e il software libero, il turismo responsabile – che si sono ispirate ai principi e ai criteri di lavoro della Carta approvata nel 2004 dal Tavolo dell’Altra Economia e che hanno caratterizzato la vita della Cae da quando ha aperto i battenti.

Sale, piazzale, spazi di mostra e di vendita sono stati frequentati con regolarità da centinaia di migliaia di persone e studenti romani solo nel corso dello scorso anno ed hanno ospitato oltre 500 eventi tra convegni, conferenze stampa, eventi, spettacoli, mostre, incontri, dibattiti, presentazioni, seminari, laboratori, e corsi.

Allo scadere della concessione triennale era prevista per la Cae la possibilità, previa presentazione di un progetto integrato di sviluppo, di rinnovare la propria presenza per i successivi sei anni. Oggi il progetto c’è, ma a venir meno sono i fondi.

Alle richieste di chiarimenti rivolte all’amministrazione il comune ha risposto che intende procedere con nuovi bandi all’insediamento “aperti ad imprese della filiera agricola e biologica e alle nuove tecnologie per l’ambiente e l’energia”. Mentre per la gestione degli spazi comuni ad uso pubblico (sala conferenza , spazi espositivi sale riunioni e piazzale antistante) l’amministrazione non intende più assumersi la responsabilità della cogestione, ma vuole affidare a terzi la loro gestione, privatizzando di fatto la Cae.

Non è chiaro, poi, come il comune intenda gestire la transizione dalla vecchia alla nuova gestione, che potrebbe facilmente durare lunghi mesi, durante i quali, evidentemente, la Cae potrebbe rimanere chiusa o priva della maggior parte delle attività economiche che operano al suo interno, creando, di fatto, “un crescente livello di precarietà: sia per le realtà economiche, che per i loro lavoratori e lavoratrici”.

“La realtà – dice Cesare Budoni dell’ufficio stampa del CAE – è che così facendo questo progetto verrebbe chiuso perché i nuovi bandi limiterebbero a sole due aree, tra quelle elencate nella legge regionale sull’Altra Economia, la possibilità di fare attività facendo mancare, così, alla Città, quella vetrina che, fino ad oggi, ha avuto il compito di mostrare ai visitatori in un sol colpo d’occhio tutto l’articolato sistema di attività sulle quali poggia l’Altraeconomia”.

Per questo le quasi 60 associazioni, insieme a gruppi e persone singole, riunite nel “Consorzio Città dell’Altra Economia”, hanno lanciato un appello per contrastare la scelta della giunta Alemanno che intende snaturare e, di fatto, smobilitare lo spazio all’interno del Foro Boario.

Il documento si chiude con la richiesta di sottoscrizione dell’appello, “per chiedere insieme a noi che questo laboratorio vada avanti, e che il Sindaco Alemanno chiarisca pubblicamente le motivazioni che lo portano, nei fatti, a chiuderlo”.

Come ci ricordano la Rete Gas del Lazio e Radio Popolare la Cae non si ferma. Il 26 settembre è prevista la festa della “Città dell’Altra Economia” dalle 10 al tramonto con la consueta presenza di stand di produttori artigiani, associazioni e cooperative che lavorano nell’ambito delle attività di Altra Economia e con il punto informativo per i visitatori sulla situazione. Il 29 settembre nella giornata simbolica di apertura /chiusura della Cae andrà in scena una grande assemblea cittadina a partire dalle ore

Il fuoco che smaschera il grande bluff del Cavaliere

In Senza categoria on settembre 26, 2010 at 10:00 am

La monnezza in Campania stava tornando da mesi, ma parlarne era vietato quasi fosse una bestemmia. Ora si scopre che non si era risolto nulla, solamente tamponato: il più delle volte nascosto

di ROBERTO SAVIANO

Il fuoco che smaschera il grande bluff del Cavaliere

“Perché gli abbiamo creduto a Berlusconi, e mo’ come se ne uscirà?”. “Lo sapevo che tornava la monnezza e che Berluscone non aveva risolto niente. Questa è la politica”. Sono le prime due frasi che ascolto da una radio locale che lascia sfogare i napoletani, che qui chiamano il primo ministro rendendo al singolare il suo nome: Berluscone, che avevano considerato il risolutore dell’emergenza rifiuti.

Oggi tutto è tornato come prima, ad appena un anno dal decreto legge del 31 dicembre del 2009 che sanciva la fine dello stato di emergenza e del commissariamento straordinario.

In realtà da mesi stava lentamente tornando la spazzatura ovunque ma parlare di nuova emergenza rifiuti sembrava impossibile, era vietato come la peggiore delle bestemmie. Ma il centro di Napoli è tornato a puzzare come una discarica, la provincia di Caserta ha nuovamente le strade foderate di spazzatura, la popolazione è tornata a ribellarsi per l’apertura di nuove discariche, terrorizzata che queste raccolgano non solo i rifiuti leciti ma anche quelli illeciti, come sempre accaduto nelle discariche campane.

Non si era risolto nulla. Solo tamponato. Il più delle volte nascosto. In certi territori lontani dai riflettori, lontani dall’attenzione dei media, la spazzatura non è mai scomparsa dalle strade. Ora il grande bluff si è compiuto e mostra la sua essenza. Ed a pagarne il prezzo, come era prevedibile, è il territorio, la salute delle persone, l’immagine di Napoli nuovamente carica di spazzatura. Chi diffama Napoli, verrebbe da chiedere al primo ministro? Le foto, chi racconta lo scempio? O le strade sommerse di rifiuti? La città torna a sopportare la monnezza con i fazzoletti sui nasi quando l’odore è troppo acre perché il caldo fa marcire i sacchetti. I mercati rionali costruiscono le proprie bancarelle sulla spazzatura non raccolta del giorno prima, e le persone fanno la spesa camminando tra rifiuti. Per lo più le persone ormai fanno finta di niente. Sperano solo che le montagne non arrivino ai primi piani come successo l’ultima volta.

L’alba sul nascente governo Berlusconi si era levata liberando Napoli e la Campania dalle tonnellate di spazzatura; ora il tramonto cala su un governo meno coeso e che molti vedrebbero allo sbando, dietro le piramidi di spazzatura che tornano, identiche. L’emergenza rifiuti si fondava su un problema che sembrava insormontabile. Le discariche campane erano satolle e la magistratura, valutandole illegali, le chiudeva impedendo ulteriori conferimenti. Non c’era più spazio per i rifiuti, e le strade divenivano nuove discariche, che non avevano bisogno di approvazione e che non si poteva per decreto chiudere o riaprire. Le strade, tutte, dai quartieri più popolari del centro storico e delle periferie, a quelli collinari, costituivano le naturali valvole di sfogo. Si bruciava in campagna spazzatura per ridurla in cenere, cenere meno voluminosa e più comoda da smaltire, e così facendo si è avvelenata la terra. L’intervento del governo ha reso territorio militare le discariche: alla magistratura quindi è stato impedito di chiuderle e ai cittadini di avvicinarsi per controllare cosa accadesse a pochi metri dalle loro case. Questo provvedimento, accettato come un male inevitabile, doveva servire a dare ossigeno alle amministrazioni per costruire alternative che però non sono mai partite.

La raccolta differenziata è la vera vergogna della Campania e di Napoli. Non si riesce ad organizzarla al meglio nemmeno nei piccoli centri. Si pensi ai tanti comuni dell’Avellinese e del Beneventano che hanno le campagne invase dalla spazzatura, ma sono troppo periferici per fare notizia. Ad oggi Napoli ha solo poche aree in cui viene svolta la raccolta porta a porta, l’unica davvero efficace perché implica un controllo dal basso del cittadino sul cittadino. Raccolta che per legge avrebbe dovuto raggiungere già il 40% dei rifiuti conferiti mettendo in moto un circolo virtuoso che la città aspetta ormai che arrivi dal cielo, come fosse un miracolo. La stessa Asìa, in un volantino da poco distribuito nell’unico quartiere dove la differenziata porta a porta è attiva da due anni  –  i Colli Aminei  – , si è detta preoccupata perché il quantitativo di rifiuti indifferenziati negli ultimi mesi è aumentato, come se quel quartiere che doveva essere la testa d’ariete, la punta di diamante di un’area devastata, si fosse reso conto che i suoi sforzi e il suo virtuosismo valgono quanto una goccia in un mare di disservizi. E a quel punto a che serve differenziare.

Meglio buttare tutto nella solita montagna di monnezza. Si sa che i termovalorizzatori non sono mai realmente partiti. Non quello di Napoli, non quello di Salerno, non quello di Santa Maria la Fossa e quello di Acerra è partito solo in parte. Anche su questo piano quindi le cose non sono andate come il governo aveva promesso e il risultato è stato il totale fallimento di un processo che non poteva contare solo sul senso civico dei cittadini. Avevano promesso di non aprire più discariche ed invece ne stanno aprendo un’altra nel parco del Vesuvio, in un’area di interesse naturalistico rarissima. L’emergenza rifiuti è stata manna per la politica campana ed è stata utilizzata per costruire un meccanismo di consulenze e appalti emergenziali. Se hai intere provincie sommerse, devi necessariamente stanziare danaro straordinario. E quindi consulenti e imprese sui quali non può esserci controllo serrato.

L’equilibrio su cui si regge il ciclo dei rifiuti in Campania è estremamente fragile. Per mandare in tilt una macchina che è tutt’altro che oleata, basta bloccare il flusso di danaro che arriva nelle casse delle provincie e dei comuni. Basta far finire i soldi in un groviglio di appalti e subappalti. A Napoli l’Asìa, l’azienda che fornisce i servizi di igiene ambientale alla città, ha circa 3000 dipendenti e affida parte dei sevizi a Enerambiente, società veneta dedicata ai servizi ecologico-ambientali e alla gestione integrata dei rifiuti, che di dipendenti ne ha 470. A sua volta Enerambiente attinge per la gestione dei rifiuti alla cooperativa Davideco che ha 120 dipendenti e agli interinali che forniscono almeno altri 150 dipendenti. In questa catena infinita di appalti e subappalti lievitano i costi e le clientele e quest’anno trascorso dal decreto di fine emergenza non è servito a mettere in moto il circolo virtuoso di cui la città aveva bisogno, ma a oliare nuovamente la macchina dello spreco e del ricatto.

Dopo l’inchiesta che ha visto Nicola Cosentino accusato dall’Antimafia di Napoli di essere stato un riferimento politico della camorra attraverso il settore rifiuti, in queste ore, sembrerebbe realizzarsi di nuovo ciò di cui si è scritto: la centralità della monnezza in Campania che arriverebbe persino, attraverso Nicola Cosentino, a configurarsi come una pistola puntata alla tempia del governo. Ovvero, come tramite di ogni rapporto tra Berlusconi e il politico casalese ci sarebbe la gestione del ciclo dei rifiuti. Nel dibattito politico di questi ultimi mesi si è fatto riferimento a come Cosentino, leader indiscusso del Pdl in Campania, avesse dalla sua molti sindaci, i consorzi, la vicinanza di imprenditori e quindi potesse formalmente, se solo lo decidesse, bloccare il meccanismo di raccolta rifiuti. Il voto alla Camera, se si crede all’ipotesi di un Cosentino imperatore nel settore dei rifiuti, con il no all’utilizzo delle intercettazioni sembrerebbe essere un dono fattogli per cercare di riportare la nuova emergenza a una “normalità” di gestione consolidata. Ma questo può saperlo solo Cosentino stesso.

Quanto ai bassoliniani, che nel settore rifiuti hanno fatto incetta di voti e clientele, certamente non risulteranno in questa fase concilianti verso la situazione e anche dal loro versante ci sarà ostruzionismo e voglia di tornare ad avere prebende e potere attraverso la crisi. O si tratta con loro o tutto si ferma. Serve ricordare che l’emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l’anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. In tutto questo la camorra naturalmente continua il suo guadagno che cresce ad ogni passaggio. Nei camion che serviranno alla nuova emergenza, nel silenzio caduto sul ciclo rifiuti perché i roghi nelle campagne continuano a gestirli i clan, bruciando rifiuti, sino al business dei terreni dove chissà per quanti decenni verranno depositate le ecoballe ormai mummificate il cui fitto viene pagato direttamente nelle loro mani.

Non mi stancherò mai di dirlo: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell’Everest, alto 8850 metri, quindi questo business ha ancora una lunga vita. Da Napoli parte un nuovo corso, quello che dimostra che per quanto si possa cercare di non mostrare, di negare, di nascondersi dietro proclami, la realtà che abbiamo sotto gli occhi questa volta è talmente schiacciante che nessuna forma di delegittimazione può renderla meno evidente. La spazzatura tornata nelle strade di Napoli sigla definitivamente il fallimento di un progetto, di un percorso, di una politica. Speriamo che queste verità, in grado di svelare definitivamente le tante menzogne spacciate come successi, possano innescare un percorso di cambiamento che se partisse dal Sud potrebbe davvero mutare il destino del paese.
© 2010 Roberto Saviano / Agenzia Santachiara

Vivisezione, in piazza a Roma Vivisezione, in piazza a Roma

In Senza categoria on settembre 25, 2010 at 7:22 PM

ARRIVA anche a Roma la protesta contro la vivisezione, dopo che il Parlamento europeo l’8 settembre ha approvato una direttiva 1 che di fatto conferma la possibilità di utilizzare animali per la ricerca scientifica, anzi amplia le maglie della precedente normativa prevedendo anche l’impiego di randagi.

L’appuntamento è sabato 25 settembre alle 15 in piazza della Repubblica. Lo slogan della manifestazione sarà “Fermare Green Hill”, dal nome della principale azienda italiana, con sede a Montichiari (Bs), che alleva cani beagle destinati ai laboratori per la ricerca scientifica. Si attendono migliaia di persone che chiederanno la chiusura di tutti gli allevamenti di cani, gatti, topi e altri essere viventi su cui si pratica la vivisezione o la sperimentazione animale.

In Italia gli animali “utilizzati” per la ricerca sono quasi un milione all’anno, 12 milioni in Europa e 115 in tutto il mondo. I cani allevati a Montichiari sono venduti in tutta Europa, non solo nel nostro paese. Per trent’anni il mercato italiano è stato dominato dall’allevamento emiliano Stefano Morini. La sua recente chiusura è il risultato delle battaglie civili di chi non ha atteso un cambiamento dall’alto. Ma ora, proprio il voto dell’Europarlamento mette a rischio i risultati di simili battaglie civili: “Se riusciremo a far chiudere l’allevamento di Montichiari, c’è il rischio che riapra in qualche altro paese comunitario”, precisa l’eurodeputato Sonia Alfano, secondo la quale, la nuova direttiva è “un atto di inciviltà, frutto del lavoro di pressione delle lobby”.

“Questa legge risulta deludente perché doveva vincolare in maniera assoluta il ricorso a metodi alternativi e scoraggiare il più possibile il ricorso agli animali”, spiega Michela Kuan, biologa della Lega Antivivisezione. La ricerca scientifica ha a disposizione metodi alternativi come i test in vitro, la bioinformatica o gli studi sul Dna. Nonostante siano attendibili e riconosciuti a livello internazionale, perché non vengono utilizzati e il numero degli animali nei laboratori non diminuisce? C’è un interesse economico legato alla sperimentazione animale che permette di fare ricerca e pubblicare senza che sia utile per l’uomo, spiega la Kuan: “Si può studiare la reazione di una molecola su un animale e ottenere dei dati. Che possano servire non importa. Intanto si pubblica e si ottengono finanziamenti. Con i metodi alternativi, basati su materiale umano, le ricerche sono vincolate all’utilità per l’uomo. C’è un’inerzia culturale”, conclude la biologa, “per cui il metodo di sperimentazione animale non viene messo in discussione. Durante la formazione universitaria, studenti e ricercatori non vengono nemmeno adeguatamente formati sui metodi alternativi”.

Gli attivisti del coordinamento “Fermare Green Hill” hanno già ottenuto un primo risultato bloccando l’ampliamento dell’azienda previsto dopo la sua acquisizione da parte degli americani della Marshall Farm. I proprietari della multinazionale volevano raddoppiare il numero di cani allevati nei capannoni dell’azienda lombarda. In aprile tremila persone sono scese in piazza a Montichiari per chiedere la chiusura di Green Hill. “Alla fine il comune ha rigettato l’ampliamento”, spiega Stefano, uno degli attivisti. “Sarebbe stato un progetto mostruoso, che prevedeva di allevare fino a 5mila cani in un anno, il doppio di quelli attuali”. Gli organizzatori sperano di avere lo stesso successo con l’appuntamento di sabato a Roma